Nov. 2, 2025 31

Al di là del falso Sé, al di là di grandiosità e depressione

Ognuno di noi custodisce dentro di sé un piccolo ripostiglio, spesso ben nascosto, dove giace ancora la scenografia del dramma della propria infanzia. È da lì che provengono certe voci interiori, certe paure o ambizioni che ci muovono ancora oggi, anche quando crediamo di esserne liberi.

Come ci ricorda Alice Miller, ogni madre (ogni genitore) porta con sé una parte del proprio passato irrisolto. E quel passato, inevitabilmente, filtra — negli sguardi, nei silenzi, nei gesti — fino a raggiungere il bambino.

È così che nasce il falso Sé: quella parte di noi che ha imparato presto a essere ciò che serviva per essere amato. Una parte brillante, efficiente, magari anche piena di successi, ma che vive nell’altalena tra l’ebbrezza della riuscita e il vuoto che arriva subito dopo.

Grandiosità e depressione non sono che due modi diversi di sopportare la stessa ferita.

Riconoscere la rabbia e il dolore per ciò che è mancato è un passaggio necessario, ma non semplice. Perché ci mette a nudo. Nell'articolo precedente ho posto il focus sul rischio di rimanere ingabbiati in questa fase di colpevolizzazione, eppure è altrettanto rischioso non riuscire nemmeno ad avvicinarci a questo step. Anzi è persino più insidioso, perché nascosto da strati di un'illusoria patina edulcorata, non porre uno sguardo onesto su ciò che c'è stato o per meglio dire non stato.

Solo nominando quella mancanza possiamo smettere di inseguire surrogati di amore, e tornare a contattare la vita vera, non quella costruita per essere approvata.

Eppure — e qui la riflessione si fa anche personale — questo passaggio non è privo di rischio neppure per noi terapeuti.

C’è, anche nel nostro mestiere, la possibilità di cadere nella stessa trappola: quella del bisogno di essere visti, ammirati, riconosciuti dai nostri pazienti.

Il pericolo è di sostituire la madre o padre mancante (e per esteso genitori dipendenti essi stessi dal nostro sguardo di riconoscimento, il che comporta "io-bambino esisto in funzione di", "dal mio essere allineato ai loro bisogni, loro-genitori possono esistere, e di conseguenza io bambino essere visto) con lo sguardo del paziente che ci idealizza, e di nutrirci, senza accorgercene, di quella dipendenza reciproca.

Per questo il lavoro del lutto — che la Miller chiama “interminabile” — non appartiene solo ai pazienti. È anche il nostro.

Solo se attraversiamo la nostra stessa ferita possiamo restare umani, non onnipotenti; presenti, non salvifici.

E così accompagnare davvero l’altro — non da un piedistallo, ma da una sponda vicina.

Riconoscere il dolore, integrare la rabbia, lasciare andare l’illusione della perfezione: tutto questo ci restituisce gradualmente a una posizione più libera.

Con i genitori — e i loro destini — alle nostre spalle, possiamo finalmente guardare avanti, verso la vita, con uno sguardo meno idealizzato e più vero.

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